Come si potrebbe definire il Macbeth che Valter Malosti presenta al Carignano fino al 25 marzo, prima che la sala, bisognosa di restauri, venga chiusa per almeno due anni? Techno-barocco non sarebbe sbagliato. Però limiterebbe le prospettive e ridurrebbe l’orizzonte. Questo suo Macbeth, rielaborato sulla traduzione di Raul Montanari e prodotto dal Teatro di Dioniso insieme con lo Stabile di Torino, sembra essere soprattutto un atto di incontinenza teatrale: ci trovi tutto in una stratificazione impressionante, in una accumulazione famelica che ti stordisce. E potresti pensare che, in questo suo affastellare, Malosti abbia aderito a tutti gli intarsi della tragedia di Shakespeare, al cui centro si scorge un uomo che Harold Bloom ha definito «il più sfortunato» dei protagonisti soltanto perché è «il più fantasioso».
Immaginazione: ecco la parola-chiave in Shakespeare e anche in Malosti. In Shakespeare l’immaginazione si insinua in una quantità di motivi che fanno la grandezza e la singolarità della tragedia, la scuotono fino a trasformare gli avvenimenti in allucinazione. L’ascesa rovinosa di Macbeth dal campo di battaglia all’usurpazione del trono di Scozia avviene, come si sa, mediante il delitto. Ma l’atto omicida è stimolato da elementi stregoneschi e da una visionarietà che sconfina nel soprannaturale; soprattutto è propiziato dalla Lady, che Macbeth ha sposato in seconde nozze e dalla quale non ha avuto figli. La sterilità ha dato la stura a infinite interpretazioni psicanalitiche e a una specie di rovesciamento di ruoli: la Lady vista come elemento maschile; e Macbeth ridotto a un ruolo subalterno e passivo. Non a caso l’uomo sembra incapace di progettare alcunché, si lascia agire come un «giocattolo rotto» (lo dice lui stesso).
L’immaginazione di Malosti non è meno complessa. Ha essenzialmente una doppia natura, cinematografica e musicale, ma si rivela permeabile a ogni genere di suggestione: il travestitismo grottesco delle tre streghe, l’aggiornamento guerresco visibile nei fucili mitragliatori e nelle pistole, il grand-opéra, il teatro di marionette, il melodramma romantico, la danza. Ecco: la danza è il problema supremo di questa rilettura. Più che rafforzativa, ha effetti stranianti, crea percorsi paralleli, suscita mondi autonomi e tocca il momento più pericoloso nella rappresentazione della follia della Lady attraverso l’opera di Verdi, con i versi del libretto proiettati sul fondo e con la Lady di Michela Lucenti impegnata in un assolo che sarà pure eseguito magnificamente, ma, nella sua immotivata lunghezza, ci porta in tutt’altra storia.
Le danze ci sembrano dunque l’anello debole e fuorviante dello spettacolo. E poiché sono numerose, mettono a repentaglio un’impresa che, quando finalmente si volge a Shakespeare, ha momenti di teatralità magnifica, che esalta la bravura interpretativa di Malosti, di Graziano Piazza (Macduff), di Emanuele Braga (Banquo), ben coadiuvati da Veli-Pekka Peltokallio (re Duncan), da Irene Ivaldi (lady Macduff) e da tutti gli altri. Macbeth è lungo la metà di Amleto, ma nella rilettura di Malosti riesce a superare le tre ore. Così ipernutrito e quasi pantagruelizzato, lo spettatore, alla fine, potrebbe legittimamente implorare pietà.
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